L’INTERVENTO

Addio a Emilio Fede: come la TV ha trasformato il racconto dello spazio



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Con la scomparsa di Emilio Fede si chiude un’epoca della TV che ha reso il cosmo parte della quotidianità, dal Challenger alla ISS. Oggi, tra streaming e social, quella lezione resta un promemoria: unire meraviglia e responsabilità

Pubblicato il 9 set 2025

Alessandro Sannini

Private Equity Investor



space economy – Spazio – razzo

È una di quelle notizie che, per un istante, fanno zittire il ronzio di fondo dell’attualità: Emilio Fede non c’è più. Con lui se ne va un frammento della nostra televisione generalista, quella che trasformava l’“evento” in rito domestico e il telegiornale in piazza pubblica. Ha diviso, ha polarizzato, ha segnato un’epoca. Ma nell’atlante delle cose che gli sopravvivono c’è anche un merito meno discusso: avere aiutato a stabilizzare nel prime time italiano il racconto delle imprese spaziali, facendo entrare il linguaggio dei lanci, delle stazioni orbitali e delle missioni di riparazione nel lessico di chi, la sera, apparecchiava la tavola con il telecomando accanto. Non fu la voce dell’allunaggio, ma fu uno dei volti che, tra fine anni Settanta e primi Duemila, hanno ancorato il cosmo a un canovaccio riconoscibile: cronaca, didattica, pathos. È da qui che conviene partire per capire come quel racconto è cambiato — e perché continua a cambiare.

La promessa della riusabilità: STS-1 e la stagione Shuttle

Il 12 aprile 1981 il Columbia inaugurò l’era dello Shuttle. La tv italiana scoprì che lo spazio poteva essere “procedura” oltre che meraviglia: finestre di lancio, checklist, piastrelle termiche, rientro planato. Nelle edizioni che Fede condusse o diresse, quel lessico entrò nella narrazione come servizio al pubblico: spiegare senza intimidire, mostrare la complessità senza travestirla da esoterismo. La formula era semplice e potente: studio sobrio, collegamenti, schede grafiche; uno sguardo che normalizzava l’eccezione. La navetta che decolla e atterra diventava, almeno in tv, un filo di continuità: appuntamenti da seguire, abitudini da costruire. Fu l’inizio di una stagione in cui l’esplorazione si spostò dalla frontiera eroica alla manutenzione del quotidiano.

Il trauma in diretta: Challenger

Il 28 gennaio 1986 lo Challenger si disintegrò a 73 secondi dal decollo. Lì si spezzò, e insieme maturò, un patto narrativo. La televisione — e il TG di Fede con essa — passò dall’entusiasmo all’alfabetizzazione del lutto: ciò che sappiamo, ciò che non sappiamo, le ipotesi sul freddo mattutino, i giunti dei booster, la catena decisionale. Il montaggio cambiò ritmo: meno enfasi, più mappe, più grafici, più pause. Si fece spazio una parola che da allora non ha più lasciato il racconto dello spazio: responsabilità. Il cosmo non era solo palco della meraviglia; era un’industria che rispondeva di sé davanti alla comunità nazionale e internazionale. Per molti spettatori italiani fu un’educazione civica in tempo reale.

Caduta e rinascita come grammatica: il caso Hubble

Nel 1990 il telescopio spaziale Hubble arrivò in orbita con uno specchio imperfetto; nel 1993 la missione di servizio portò in dote ottiche correttive e nuovi strumenti. In tre anni, la tv generalista mise in scena il romanzo dell’errore corretto: diagnosi, addestramento, EVA, braccio robotico, prime immagini nitide. Il merito di quella stagione fu duplice: da un lato rese popolare l’idea che anche nello spazio si aggiusta; dall’altro mostrò che la scienza è processo, non epifania. È una pedagogia che Fede intuì per istinto televisivo: la trama della riparazione è televisiva per eccellenza, perché ha un protagonista, un ostacolo, una soluzione. E perché sposta l’attenzione dall’eccezionalismo all’arte del lavoro ben fatto.

Il cantiere orbitale: nasce e cresce la ISS

Il 20 novembre 1998, con Zarya, cominciò l’assemblaggio della Stazione spaziale internazionale. Per anni il pubblico ha guardato un cantiere in orbita: moduli agganciati come Lego, tralicci, pannelli, esperimenti a microgravità, turni di equipaggio. Era il racconto perfetto per un telegiornale che amava i “lavori in corso”: meno retorica dell’eroe solitario, più cooperazione tra ex rivali, più procedure condivise. La ISS consolidò un altro passaggio culturale: l’idea che lo spazio sia infrastruttura — e che, come ogni infrastruttura, viva di programmazione, manutenzione, budget, standard. La tv imparò a raccontarla con linguaggio accessibile: condominio orbitale, regole comuni, rotazioni. Un cambio di paradigma silenzioso, ma profondo.

Il giorno più buio (di nuovo): Columbia

Il 1° febbraio 2003 il rientro dello Shuttle Columbia si trasformò in tragedia. Ancora una volta il telegiornale fu chiamato a farsi manuale di comprensione collettiva: la dinamica dei detriti, il bordo d’attacco colpito da un frammento di schiuma al decollo, il plasma del rientro. Le edizioni dirette da Fede risposero con un format ormai riconoscibile: finestre di aggiornamento, distinzione netta tra fatti e ipotesi, domande aperte ripetute in chiaro. In controluce si vedeva maturare un’altra svolta: la cultura della sicurezza entrava di diritto nell’agenda dell’informazione. La promessa di routine della stagione Shuttle si incrinava definitivamente; la narrativa tornava a fare i conti con il rischio non come eccezione, ma come variabile da amministrare.

Europa che atterra: Huygens su Titano

Il 14 gennaio 2005 la sonda europea Huygens, sganciata da Cassini, atterrò su Titano. Le immagini ambrate, i ciottoli, la nebbia di idrocarburi: improvvisamente familiare un mondo lontanissimo. Per il pubblico italiano fu l’incontro fra identità e competenza: ESA, NASA e Agenzia Spaziale Italiana insieme; contributi scientifici e industriali nazionali. Il racconto televisivo si tinse di un patriottismo sobrio: orgoglio per la cooperazione, non per il vessillo. In quel frangente, il giornalismo generalista centrò un punto delicato: commuovere senza sbandare, informare senza annacquare. Un equilibrio raro, che mostra come lo spazio funzioni da cartina tornasole della maturità di un sistema mediatico.

Le tre costanti di un metodo televisivo

Rileggendo quella stagione, tre elementi tornano e danno la cifra anche dell’“era Fede”:

  1. Centralità del presente: l’evento non è solo una data, è un processo in corso; l’aggiornamento è parte della notizia.
  2. Umanizzazione della complessità: volti e luoghi — astronauti, ingegneri, sale controllo — come ponti tra il pubblico e la tecnologia.
  3. Bilanciamento tra pathos e rigore: concedere alla meraviglia il suo spazio, ma subordinare il racconto ai fatti e al contesto.
    Non sempre il mix è stato impeccabile. Ma ha contribuito a rendere “dicibile” lo spazio a un’audience vasta, spostando un tema da nicchia a cultura generale.

Com’è cambiato (e sta cambiando) il racconto dello spazio

L’uscita di scena di Fede coincide con un passaggio epocale. Il giornalismo spaziale non è più solo televisione lineare: è live streaming delle agenzie e delle aziende, è social in tempo reale, è commento di specialisti e community che sezionano il dato, è infografica interattiva, è newsletter verticale che accompagna per mesi la stessa missione. La retorica della conquista ha lasciato il posto a quella dell’ecosistema: la Luna torna, ma come nodo logistico; l’orbita bassa diventa industria; i telescopi sono piattaforme di cooperazione multi-agenzia; il privato entra stabilmente nel racconto. Cambia anche la grammatica: meno “primo uomo”, più catene di fornitura; meno “miracolo”, più certificazioni; meno telecronaca, più accountability. E il pubblico, che un tempo aspettava il TG delle 20, oggi pretende una copertura che sappia essere insieme tecnica e accessibile, con la stessa capacità di distinguere tra ciò che è certo, ciò che è probabile e ciò che è ancora ipotesi.

Un addio che è anche un promemoria

L’INTERVENTOSalutare Emilio Fede significa chiudere un capitolo — e aprire il successivo con una consegna chiara. Il racconto televisivo ha avuto un ruolo decisivo nel portare lo spazio nelle nostre case; oggi quello stesso racconto deve convivere con piattaforme, linguaggi, metriche e attese radicalmente diversi. La sfida non è rincorrere l’algoritmo, ma rinnovare la promessa originaria del buon giornalismo: trasformare la complessità in comprensione senza impoverirla. Per riuscirci occorre una nuova alleanza fra redazioni e competenze scientifiche, occorre tempo redazionale sottratto al rumore, occorrono formati che non temano il dettaglio e che non scambino il dettaglio per pedanteria.

La lezione, se vogliamo cercarla nei fotogrammi che restano, è questa: lo spazio ci obbliga a un doppio movimento. Guardare lontano, con l’immaginazione che serve per uscire dall’atmosfera dell’ovvio; e guardare vicino, con il rigore che serve per tenere i piedi a terra. Fede apparteneva alla generazione che ha portato per la prima volta quel doppio sguardo nelle nostre sere. Sta alle redazioni di oggi — televisive, digitali, ibride — fare un passo oltre: raccontare il cosmo non come eccezione intermittente, ma come parte viva dell’economia, della ricerca, della politica industriale e della cultura.

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