Virgin Orbit vuole tornare a volare entro la fine dell’anno. E questo nonostante il 4 aprile scorso sia stata già avviata la procedura Chapter 11 che, di fatto, ha segnato l’ingresso per la società di Sir Richard Branson dello stato di esercizio provvisorio che potrebbe portare all’insolvenza e al fallimento definitivi.
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La crisi dal 9 gennaio in poi
Un regime che dà teoricamente a Virgin Orbit la possibilità di riprendere le operazioni da dove sono state lasciate, ovvero dal volo del 9 gennaio che ha visto il fallimento del LauncherOne, il vettore rilasciato in volo dall’ala di un Boeing 747 modificato e soprannominato Cosmic Girl. È infatti arrivato il responso dell’indagine interna sui motivi che l’hanno causata: a bloccare il motore Newton 4 del secondo stadio è stato un filtro del carburante mal fissato che è stato risucchiato dal motore stesso arrestandolo.
Per colpa di un filtro
È stata dunque confermata l’ipotesi formulata dal ceo di Virgin Orbit, Dan Hart, nel corso della conferenza stampa che era seguita poco meno di un mese a quello che sarebbe dovuto essere storicamente il primo lancio spaziale in assoluto dal suolo britannico. Il responso è arrivato dopo una serie di test portati avanti al Mojave Air and Space Port in California che “hanno confermato le prestazioni di un filtro carburante riprogettato per prevenire il verificarsi dello stesso problema” anche se tali modifiche non sono note.
Come se niente fosse
“Tutti gli scenari potenzialmente credibili – ha affermato Hart il 19 aprile scorso – sono stati investigati. Il progetto modificato, che è stato verificato attraverso prove, è stato applicato al prossimo razzo il cui volo è programmato dalla compagnia per la fine dell’anno dal Mojave Air and Space Airport”. Virgin Orbit dunque continua nella sua linea di “business as usual” anche se i libri contabili sono in tribunale e 675 dipendenti sono stati congedati mentre in 100 continuano a lavorare nella speranza che la società britannica possa riprendere ad operare.
Corsa contro il tempo
Secondo la documentazione inviata al giudice fallimentare da Virgin Orbit, il prossimo LauncherOne sarebbe già stato completato al 90% e per esso ci sarebbe un cliente già contrattualizzato. Insieme a questo, la speranza è di trovare un investitore o un compratore che permetta di mettere in atto il piano di riassetto ed eviti la liquidazione definitiva. Come rivelato in precedenza, la ricerca di attori in grado di portare denaro, è stata affidata agli studi di consulenza Alvarez & Marsal e Ducera Partners.
I problemi mai risolti
Secondo la proposta fatta da Virgin Orbit, la ripresa delle operazioni comporterebbe l’incremento del personale a 275 persone o a poco più di un terzo dei livelli precedenti e, una volta portato a compimento il lancio, alzare i ritmi lavorativi. Sta di fatto che finora Virgin Orbit ha sofferto non poco, sin dalla raccolta di fondi che ha fornito meno di quanto previsto continuando con un piano di lanci che prevedeva sei lanci nel 2022 e ne ha visti solo due portati a compimento. A questo si somma il fallito lancio del 9 gennaio.
Un bilancio problematico
Anche gli ultimi bilanci evidenziano criticità. Il 2022 ha sì visto il giro d’affari crescere da 7,4 a 33,1 milioni di dollari, ma solo per il valore più elevato dei lanci, non per un sostanziale aumento delle attività. In più, il costo di quest’ultime è stato di 85,7 milioni, ben più dei ricavi e più del doppio rispetto al 2021 e sono aumentate in modo significativo le spese correnti portando a 191,1 milioni le perdite nette contabilizzate nel 2022 dopo i 157,3 milioni dell’anno precedente e i 121,7 milioni accumulati nel 2020.
Addio a nome e marchio
Inoltre, se Virgin Orbit dovesse farcela, dovrebbe anche cambiare nome. Il piano presentato prevede infatti che la Virgin Investments Ltd, che è finanziariamente garante dell’esercizio provvisorio, possa mantenere per sé denominazione e marchio commerciale fino a quando la compagnia non sarà venduta o un altro piano sia stato approvato in base a nuove condizioni. È quello che giuridicamente è definito come “termination and debrand agreement” che, qualora si mettesse in salvo, impedirebbe a Virgin Orbit di fregiarsi dello stesso nome così come di qualsiasi riferimento al gruppo di Sir Richard Branson.