Due firme, una stretta di mano, un obiettivo che vale una stagione industriale. L’Agenzia spaziale europea affida ad Avio lo sviluppo di tecnologie e un disegno di missione per dimostrare—con un volo—che anche “lo stadio alto” di un lanciatore può rientrare e tornare a volare. Non più solo booster che scendono in verticale: stavolta il banco di prova è il pezzo di razzo che opera in orbita, rilascia il carico, quindi frena, rientra, atterra. Un salto difficile, ma strategico. Per l’Europa, certo. Per l’Italia, soprattutto.
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Il perimetro
Il contratto vale 40 milioni di euro e dura 24 mesi. È una fase di maturazione tecnologica: requisiti, architettura, segmenti di terra, derischiamenti. Si chiude con una preliminary design review; poi, se i numeri stanno in piedi, si passa alla prototipazione. Non è un dettaglio: il messaggio è “costruire bene il ponte”, prima di attraversarlo. E nel frattempo fissare tasselli standardizzabili che altre linee di prodotto—attuali e future—possano riusare.
Il contesto: perché adesso. La riusabilità non è più un esercizio di stile. I cicli di lancio diventano serrati, la domanda (istituzionale e commerciale) chiede costi prevedibili e tempo al pad ridotto. L’Europa esce da due anni complicati sull’accesso allo spazio; Ariane 6 ha debuttato, Vega-C è tornato operativo, ma la lezione è chiara: servono architetture capaci di abbassare i costi variabili ed eliminare colli di bottiglia nella supply chain. Un upper stage riutilizzabile è il tassello che mancava nel mosaico europeo: accanto a Themis (dimostratore VTVL del primo stadio) e Prometheus (il motore metano-ossigeno a basso costo), arriva la componente “orbita e rientro”. La stampa internazionale lo ha già battezzato “mini-Starship”: etichetta efficace per il grande pubblico, con tutte le differenze del caso su scala, missioni, budget.
Italia, mappa di una filiera che c’è
Se il cuore industriale è a Colleferro, il polso batte in Sardegna, Campania, Piemonte e Lombardia. È lì che si gioca la partita delle ricadute.
· Propulsione metano-ossigeno. Il banco prova è reale, non sulla carta: lo Space Propulsion Test Facility in Sardegna—il poligono di Salto di Quirra—dove Avio ha già messo alla frusta il motore da upper stage della generazione Vega-E. Per le PMI si apre una domanda concreta: valvole e attuatori criogenici, linee e giunti, sensoristica di pressione e temperatura, elettronica di controllo, accensioni e pirotecnica, manifattura additiva di parti fredde e calde. Chi sa prototipare, testare, qualificare in tempi brevi ha un vantaggio competitivo immediato. E ha un cliente a poche ore di camion.
· Materiali e protezioni termiche. Uno stadio che rientra dall’orbita vive carichi termici e meccanici severi. L’Italia, qui, non parte da zero: Space Rider ha già qualificato elementi in CMC (compositi a matrice ceramica) per naso e body flap, con test nel plasma wind tunnel Scirocco del CIRA a Capua. Tradotto: competenze, forni, processi di infiltrazione, giunti e rivestimenti anti-ossidazione sono al centro di una micro-filiera lombarda-campana pronta a capitalizzare. Per i subfornitori: tasselli, sigillature ad alta temperatura, adesivi strutturali, sensoristica embedded per health monitoring. Ogni ciclo di test aggiunge dati e abbassa il rischio.
· Strutture e serbatoi criogenici. Il driver del riuso sono i chili: meno massa secca, più margini. La traiettoria europea guarda a serbatoi in composito e a strutture integrate. Serve chi sa trattare preimpregnati avanzati, liner, barriere, avvolgimenti, grandi autoclavi e soprattutto controlli non distruttivi (ultrasuoni, shearografia, termografia) su pareti sottili. Portare queste competenze a livello spaziale (ECSS) è il ticket di ingresso.
· Avionica, GNC, software. Il rientro di uno stadio superiore è una sinfonia di sensori, attuatori, algoritmi. Serve un GNC che “cuci” ipersonico e subsonico; flight computer ridondati; IMU ad alta fedeltà; software certificabile e testabile in hardware-in-the-loop. Anche qui l’Italia gioca in casa: il percorso Space Rider—fino ai drop test a circuito chiuso in Sardegna—ha consolidato una rete di competenze riusabili su un upper stage. Tradurre quel patrimonio in prodotti build-to-spec è l’occasione.
· Recupero, ispezione, refurbishment. È la parte meno raccontata ma più nuova: nasce un MRO dello spazio. Con procedure, attrezzature, logistica. Chi fa NDE rapidi (anche automatizzati) e riparazioni certificate potrà presidiare l’anello finale del turnaround: poche settimane tra un volo e il successivo sono il benchmark a cui tendere.
· Segmento di terra e operazioni. Un upper stage che rientra ha bisogno di ground support equipment dedicato e di un centro di controllo capace di gestire fasi orbitali, deorbitazione, rientro e recupero. Torino—con ALTEC e il ruolo di prime di Thales Alenia Space su veicoli rientrabili—è l’altro perno. Dalla formazione all’addestramento, fino ai simulatori: anche qui c’è spazio per PMI tecnologiche.
Una filiera corta e integrata
Colleferro per la propulsione e l’integrazione; Perdasdefogu per i test criogenici e i firing a lungo impulso; Capua per la qualifica aerotermodinamica e i materiali ceramici; Torino per operazioni e ground segment; Bergamo e Milano per i CMC e i trattamenti. Un arcipelago che può fare sistema. A patto di coordinare standard, interfacce, qualification plan, piani di fornitura duplicati. La lezione della sostituzione accelerata di componenti extra-UE—imposta dal contesto geopolitico—è ancora fresca: robustezza, duplicazione, localizzazione dei test sono parte del vantaggio competitivo.
Tecnica e narrativa
La parola “riusabilità” evoca immagini potenti—flap aerodinamici, scudi termici, gambe di atterraggio. La realtà europea sarà più sobria, ingegneristica, progressiva. Non è una rincorsa spettacolare: è design, derischiamenti, iterazioni. Themis—il dimostratore a decollo e atterraggio verticale—ha messo le gambe sulla rampa a Kiruna: un annuncio simbolico, ma concreto. Prometheus, il metano-ossigeno a basso costo, fa da cerniera. Lo stadio superiore riutilizzabile chiude la triade. E l’Italia, con l’esperienza maturata su Vega-E e Space Rider, ha la possibilità di entrare nella stanza dei bottoni non solo come prime, ma come ecosistema.
PMI: come agganciarsi al treno. Tre mosse, senza giri di parole
1. Certificazioni e prove. Portare processi e forniture al livello EN 9100 ed ECSS; presentarsi con piani di qualifica e test readiness già pronti—NDE su compositi criogenici, camere termovuoto, banchi HIL per avionica. Chi arriva con la valigia di test, entra.
2. Micro-forniture ad alto valore. Valvole criogeniche, attuatori rapidi, sensori rugged, rivestimenti per CMC, cablaggi per ambienti criogenici, software di controllo real-time. Meglio essere leader di una nicchia critica, che comprimari su forniture commodity.
3. Alleanze e cluster. Aggregarsi in ATI/RTI per presentare work package completi (TPS riutilizzabile, serbatoi, GNC, MRO). Parlare la lingua del prime—tempi, interfacce, responsabilità—è metà del lavoro.
Rischi e opportunità. Il budget di questa fase non industrializza nulla; serve a togliere incognite. È poco? È mirato. E ha un vantaggio: apre subito finestre di test e design freeze su cui una PMI può investire con orizzonte chiaro. In parallelo, la normalizzazione della catena Vega—dopo il ritorno in volo e gli aggiornamenti di secondo stadio—ha mostrato che l’Europa sa reagire quando la supply chain si inceppa. Il segnale al mercato è arrivato: riusabilità sì, ma senza derogare su affidabilità e cadenza.
Cosa aspettarsi nei prossimi 24 mesi
PDR dello stadio, con numeri duri su massa secca, margini propulsivi, thermal budget, turnaround. Test su materiali e TPS riutilizzabili, con cicli multipli e ispezioni accelerate. Consolidamento dei serbatoi criogenici in composito. Sincronizzazione con Themis e con la tabella di marcia di Prometheus, per riusare standard e interfacce. Sullo sfondo, le altre iniziative europee sul “riuso alto” (pensate a Susie), da coordinare per evitare duplicazioni.
Conclusione
Vi è un prima e un dopo nella storia industriale europea dello spazio. Il prima è l’era dei lanciatori monouso—costi fissi alti, cadenze lente, filiere progettate per “fare bene una volta sola”. Il dopo è la cultura del vola-rientra-vola: progettare perché un sistema sopravviva a più missioni, ispezionarlo in fretta, riportarlo in rampa con la stessa affidabilità. Il contratto ESA–Avio per uno stadio superiore riutilizzabile non è un fuoco d’artificio: è l’inizio di una normalità diversa. Meno spettacolo, più ingegneria; meno slogan, più gating tecnico; meno “programma”, più “piattaforma”.
Per l’Italia, il cambio di passo non si misura solo in fatturato. Si misura in upgrade di processi, in standard condivisi, in test che accorciano le incertezze. È la differenza tra fornire “pezzi” e fornire “pezzi qualificati”—con dati, procedure, ricambi, manuali, health monitoring. La riusabilità è un patto di filiera: il prime chiede cicli rapidi e componenti che reggano più vite; i fornitori chiedono volumi prevedibili e finestre di prova. Se questo patto tiene, l’ecosistema italiano—Colleferro, Sardegna, Campania, Piemonte, Lombardia—diventa la dorsale mediterranea della riusabilità europea.
Il banco di prova, nei prossimi 24 mesi, sarà spietato. Preliminary Design Review, design freeze, dimostratori materiali, serbatoi criogenici, avionica di rientro: ogni gate tecnico chiuderà o aprirà opzioni. È qui che una supply chain matura fa la differenza: quando arrivano i dati veri (masse secche, margini propulsivi, budget termico, tempi di turnaround), servono fornitori capaci di reagire entro settimane, non trimestri. La filiera italiana ha un vantaggio: i banchi prova esistono, i laboratori pure, le competenze sono distribuite. Va cucito il filo digitale—requirements, configurazioni, tracciabilità—che trasformi tanti “ottimi singoli” in un “ottimo sistema”.
Quali sono i numeri-chiave da guardare—senza ideologia, con freddezza? Tre, innanzitutto. Tempo: turnaround obiettivo sotto le 4–6 settimane per lo stadio e sotto le 24–48 ore per l’ispezione principale. Cicli: almeno 3–5 riusi senza major overhaul per i componenti critici di TPS e propulsione secondaria. Costo: riduzione del cost per mission nell’ordine del 20–30% rispetto a un upper stage monouso equivalente. Non sono dogmi, sono ordini di grandezza—e dicono subito chi sta contribuendo davvero alla curva di apprendimento.
I rischi? Frammentazione, sotto-capitalizzazione, qualification debt (il “debito di qualifica” che si accumula quando si prototipa senza piani di prova robusti), tempi di approvvigionamento lunghi su materiali speciali. Le contromisure sono altrettanto chiare: duplicazione di fornitori UE per i componenti no-single-point-of-failure; framework agreement pluriennali con min-max di fornitura; digital thread di filiera che leghi requisiti, disegni, prove, non conformità e riparazioni; investimenti in NDE automatizzato che trasformino l’ispezione in una metrologia ripetibile, tracciabile, rapida.
C’è poi un fattore intangibile—ma decisivo. La riusabilità premia chi sa operare “sul filo”: scegliere materiali non perché “perfetti”, ma perché abbastanza buoni, tracciati e riparabili; progettare non per evitare ogni danno, ma per assorbirlo e documentarlo; accettare che il valore non sia il 100% al primo colpo, bensì l’80% ripetibile dieci volte. È un cambio culturale. È anche l’occasione per riposizionare decine di PMI italiane su fasce di valore che non erano a portata: non solo parti, ma funzioni; non solo funzioni, ma servizi MRO; non solo MRO, ma dati e modelli che migliorano il design.
La conclusione è semplice, quasi brutale: d’ora in avanti contano i giorni e i grammi. I giorni che separano un atterraggio da un nuovo decollo; i grammi che togliamo alla massa secca senza regalare rischi. Se l’Italia saprà far correre la propria catena corta su questi due binari, la riusabilità non sarà una bella pagina nei comunicati—sarà un’abitudine. E un’abitudine, in industria, è la forma più solida di sovranità.






