L'INTERVISTA

K3rx, Zoli: “Dalla ceramica la nuova generazione di materiali per l’aerospazio”

Il cofondatore e Chief manufacturing officer della startup innovativa e spin-off del CNR: “Il nostro obiettivo è produrre nuovi compositi ceramici in grado di resistere alle altissime temperature e sollecitazioni meccaniche delle missioni spaziali”

17 Lug 2023
Luca Zoli

Quello dei materiali è uno dei settori “caldi” per la ricerca e sviluppo nel mondo dell’aerospazio. Perché man mano che ci si pongono nuovi obiettivi tecnologici e di esplorazione, il comparto si deve misurare con la necessità di rendere le proprie operazioni sempre più sostenibili dal punto di vista economico e ambientale. Proprio in questa direzione va l’attività della startup K3RX, che è impegnata nella messa a punto di nuovi materiali che potranno in futuro equipaggiare veicoli spaziali, ma in prospettiva trovare applicazione anche in altri settori industriali. Luca Zoli, che da oltre 10 anni è ricercatore proprio del Cnr all’Istituto di Scienza e Tecnologia e Sostenibilità per lo Sviluppo dei Materiali Ceramici (Issmc) di Faenza, racconta in questa intervista a SpacEconomy360 come è nata l’idea di business e quali sono le sue prospettive.

Zoli, quale carica di innovazione porta K3rx nel  mondo della ricerca sui materiali per l’industria spaziale?

Nel nostro caso parliamo di tutta la gamma di materiali che sono in grado di resistere a temperature sino ed otre i 2.000 C°, come quelle che si registrano sui veicoli spaziali quando entrano o escono dall’atmosfera. Ma parliamo anche di componenti per motori a reazione o bordi alari per veicoli supersonici. I materiali tradizionali sono stati messi a punto attorno agli anni ’60, funzionano bene ma sono costosi e hanno una durata breve. Potremmo parlare in generale di componenti “usa e getta” o con prestazioni inferiori, comunque non in linea con le recenti richieste di performance e sostenibilità. Quando oggi sentiamo parlare di componenti riutilizzabili non ci si riferisce infatti a materiali innovativi, ma a materiali tradizionali che vengono trattati con ulteriori tecnologie di nuova generazione, ad esempio con sistemi di refrigerazione che consentono loro di durare più a lungo. Noi siamo diversi, vogliamo vendere materiali innovativi con caratteristiche native di resistenza e durevolezza a calore, ossidazione, sollecitazioni meccaniche e usura.

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Qual è di fronte a questo scenario il vostro obiettivo?

Vogliamo portare sul mercato questi materiali nuovi, di per sé più resistenti e durevoli di quelli adottati finora per le missioni spaziali. Da 20 anni, il gruppo di ricerca del Cnr a cui afferisco studia materiali ultra-refrattari, ma il tipico problema insormontabile dei ceramici è la loro fragilità. Abbiamo scelto come principio quello della ceramica e per superarne la proverbiale fragilità abbiamo puntato sui compositi con l’utilizzo di fibre in carbonio per dare al materiale proprietà nuove. Abbiamo così brevettato i nostri processi e le nostre idee, piuttosto diverse da quelle in commercio e stiamo studiando il modo per farle arrivare sul mercato e adottare, in prospettiva, dai grandi player dell’aerospazio.

Quando e come nasce K3RX?  

La scintilla è scoccata con una e-mail che ci invitava a seguire un percorso di imprenditorialità (ReActor). Il nostro pallino in quel momento era quello di realizzare componenti anche complessi per test ad alta temperatura nelle gallerie del Cira, il centro italiano di ricerche aerospaziali. Si trattava di materiali molto sofisticati che però alla prova dei fatti non riuscivano a superare il test della fragilità: un’esperienza a tratti frustrante alla quale non abbiamo voluto arrenderci.

Così abbiamo iniziato a studiare con rinnovato impegno quella che poteva essere la soluzione per superare il problema e, contemporaneamente, ci siamo candidati a molti progetti e bandi con l’obiettivo di arrivare a soluzioni tecnologiche innovative. Abbiamo risolto il rebus – trovando le giuste configurazioni dei materiali e vincendo un importante bando del programma Horizon 2020 della Commissione Europea con il progetto C3harme (https://c3harme.eu/).

Nell’occasione abbiamo guidato un consorzio esteso che ci ha permesso di condividere la ricerca e confrontarci con un gruppo di addetti ai lavori per capire come risolvere i problemi. Il confronto in ambito europeo ci ha aiutato a crescere, in collaborazione con giganti del calibro del German Aerospace Center, di Airbus e di Ariane Group, soltanto per fare qualche nome. Per arrivare a un buon punto di maturità tecnologica sono serviti un percorso preliminare di due anni e un lavoro successivo molto approfondito di altri cinque. Da lì e dopo ReActor è partita l’accelerazione, abbiamo fondato l’azienda e ora stiamo muovendo i primi passi sul mercato.

Come avete pensato il vostro business model?

Lo abbiamo diviso in due step: la fase di Development e quella di Deployment.

Della prima fa parte la nostra attività di realizzare prototipi e testarli insieme con le strutture di ricerca e sviluppo di grandi società come Airbus o Leonardo nel campo Aerospace & Defense, o di Brembo e Safran per citare due nomi di industrie più tradizionali. Lavoriamo con i loro settori di ricerca e sviluppo e questo ci aiuterà a capire in modo più completo il grado di affidabilità dei nostri materiali. A questo dovrà seguire la fase di Deployment e dell’industrializzazione vera e propria ma per arrivarci serviranno ancora alcuni anni; per l’introduzione di componenti strutturali realizzati con nuovi materiali, che devono supportare condizioni così estreme, parliamo di tempi di sviluppo lunghi. Inoltre, i nostri materiali difficilmente sostituiranno quelli tradizionali su mezzi già esistenti, ma potranno daranno un valore aggiunto su mezzi di nuova concezione, un processo già di per sé necessariamente lungo.

Quali sono oggi i vostri potenziali clienti di riferimento?  

Partirei senza dubbio dall’aerospazio, ma a questo si aggiungono la Difesa, l’automotive – con particolare riferimento ai sistemi frenanti – e in prospettiva anche il campo dell’industria e dell’energia, che sono però troppo diversificati per poter fare un ragionamento complessivo. Per scendere più nei dettagli parliamo di materiali per bordi alari, musetti di prua o nose cone, ugelli di scarico (specialmente per alimentazioni a combustibili solidi), impianti frenanti per aerei e automobili altamente performanti.

Quanto conta nel vostro campo l’“open innovation”?

E’ un elemento molto importante oltre che caratteristico del periodo storico attuale, anche se per progetti come i nostri è estremamente importante procedere con cautela per proteggere competenze e know-how in un contesto dove la concorrenza è sempre più serrata.

Quali sono le sfide più importanti che vedete nel vostro futuro?

Credo che le priorità, in questo momento, riguardino la proprietà intellettuale – quindi la capacità di destreggiarsi tra i brevetti – e lo sviluppo industriale. In questo momento nell’aerospazio tutti sono alla ricerca del basso costo, in un settore in cui in generale i componenti con performance estreme, con processi produttivi difficili e materie prime molto selezionate, non si sposano benissimo con il contenimento dei costi.

Una ulteriore sfida è quella della filiera italiana o almeno europea. Attualmente i produttori di polveri ceramiche sono soprattutto esteri, mentre la fibra di carbonio e la grafite sono tra le materie prime critiche. Dare vita a una filiera italiana è in impegno molto sfidante ma che potrebbe avere un valore importante.

Un ulteriore grande tema è quello della sostenibilità ambientale: il processo che utilizziamo rimane energivoro, ma lo è in misura minore rispetto alle tecnologie tradizionali ed è significativamente più veloce. In ultimo, dare vita a un materiale che sia effettivamente riutilizzabile, fino alle sei missioni fissate come target dall’unione europea, è un obiettivo che siamo impegnati raggiungere.

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